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Infodemia: quando l'informazione diventa infezione

davidebertusi

L’infodemia è stata recentemente inserita nell’elenco delle parole nuove dall’Accademia della Crusca, che la definisce come un “abnorme flusso di informazioni di qualità variabile su un argomento, prodotte e messe in circolazione con estrema rapidità e capillarità attraverso i media tradizionali e digitali, tale da generare disinformazione, con conseguente distorsione della realtà ed effetti potenzialmente pericolosi sul piano delle reazioni e dei comportamenti sociali”.



Il termine è comparso per la prima volta in un articolo di David Rothkopf, pubblicato dal Washington Post durante l’epidemia di SARS nel 2003. Successivamente, è stato ripreso dall’OMS nel 2020, in occasione della pubblicazione del 13° rapporto sul “nuovo coronavirus”. Nel documento, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha invitato governi e istituzioni a far fronte all’emergenza informativa che ha accompagnato, fin dall’inizio, quella sanitaria. Sebbene originariamente associato alle crisi sanitarie, il neologismo si rivela estremamente attuale e particolarmente idoneo a descrivere l’intricata e caotica rete informativa in cui siamo immersi.


Le luci e ombre del progresso tecnologico nell'informazione

Le numerose conquiste del progresso tecnologico hanno indubbiamente migliorato molti aspetti della nostra vita, tra cui la democratizzazione della libertà di stampa e d’espressione. Tuttavia, questa conquista fondamentale comporta anche conseguenze negative: una capacità quasi illimitata di pubblicare notizie a scapito della verifica delle fonti. L’accessibilità delle informazioni, un tempo privilegio di pochi, oggi è alla portata di chiunque. Tuttavia, questa facilità di accesso può diventare un'arma a doppio taglio, soprattutto quando la priorità si sposta dalla qualità dei contenuti alla velocità di pubblicazione, con l’obiettivo di attirare il maggior traffico possibile.


Paura e business dell'informazione: gli effetti psicologici

La pandemia da Covid-19 ha avuto effetti devastanti non solo sul piano sanitario, ma anche su quello psicologico. L’informazione, in questo contesto, ha giocato un ruolo cruciale. Durante le prime settimane dell’emergenza, la diffusione delle notizie – dalle prime voci provenienti dalla Cina alla successiva escalation globale – è stata caratterizzata da una iniziale sottovalutazione della gravità della situazione. Quando poi la pandemia è diventata inarrestabile, il tono comunicativo è cambiato drasticamente, passando a una narrazione più estrema e allarmista. Questo cambio di paradigma riflette una dinamica ben nota: la paura è uno strumento potente per attirare attenzione e influenzare comportamenti.

Il cosiddetto “terrorismo mediatico” non è necessariamente il frutto di complotti, ma risponde a logiche economiche precise. Il sistema informativo si regge su modelli di business che premiano il coinvolgimento del pubblico. Diversi studi hanno dimostrato come le emozioni negative, come la paura, possano aumentare la condivisione e la lettura di contenuti. Ad esempio, una ricerca pubblicata sulla rivista Nature Human Behaviour ha evidenziato che le notizie emotivamente cariche hanno una maggiore probabilità di diventare virali, amplificando così la loro portata. Inoltre, il fenomeno del “clickbait” – titoli sensazionalistici pensati per stimolare curiosità o ansia – si inserisce perfettamente in questo contesto. Il risultato è una popolazione sempre più “sospesa”, in attesa costante di aggiornamenti, con un impatto diretto sul benessere psicologico e sociale.



La crisi dell'affidabilità nell'informazione contemporanea

Il panorama informativo odierno è caratterizzato da un’interconnessione senza precedenti, in cui media tradizionali e digitali si influenzano reciprocamente. Tuttavia, questa sovrabbondanza di fonti spesso genera confusione, rendendo difficile distinguere tra informazione verificata e disinformazione. Gli algoritmi delle piattaforme social amplificano il problema, promuovendo contenuti che massimizzano l’interazione, spesso a scapito della veridicità.

A livello globale, si assiste anche a una crescente polarizzazione delle opinioni, favorita dalla cosiddetta “echo chamber”: gli utenti tendono a esporsi solo a contenuti che confermano le proprie convinzioni, riducendo il confronto con punti di vista diversi. Questo fenomeno alimenta il rischio di una società sempre più divisa e incapace di affrontare le sfide comuni con un approccio critico e informato.

La narrazione mediatica non è mai neutrale: essa interpreta e modella i fenomeni in base a scelte editoriali, culturali e politiche. Durante la pandemia, ad esempio, si è spesso oscillato tra messaggi di rassicurazione e allarmismo, generando incertezza nel pubblico. Questa ambivalenza è in parte spiegabile con la difficoltà di comunicare in situazioni di emergenza, ma riflette anche una mancanza di coordinamento e chiarezza da parte delle istituzioni.



Strategie per un'informazione responsabile

Per contrastare gli effetti dell’infodemia, è necessario agire su più fronti. Da un lato, è fondamentale promuovere l’etica nel giornalismo, valorizzando la verifica delle fonti e penalizzando le pratiche scorrette, come il clickbait. L’educazione del lettore è altrettanto cruciale: sviluppare competenze di alfabetizzazione mediatica permette di riconoscere le fake news e di accedere a contenuti di qualità.

Un altro strumento efficace è il fact-checking, reso possibile da organizzazioni indipendenti che monitorano e verificano le notizie. Infine, l’introduzione di norme e organismi di controllo potrebbe garantire una maggiore trasparenza e responsabilità nel mondo dell’informazione, senza compromettere la libertà di stampa.

In un’era dominata dall’informazione, affrontare l’infodemia richiede uno sforzo collettivo, in cui giornalisti, istituzioni e cittadini collaborano per costruire un ecosistema mediatico più sano e affidabile.



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